Artemisia Gentileschi, quando l’arte riscatta la sofferenza
Artemisia Gentileschi è stata una talentuosa pittrice di scuola caravaggesca, passata alla storia non solo per la sua straordinaria arte, ma anche per il coraggio e la dignità con cui affrontò il processo contro il suo stupratore.
Il supplizio della sibilla
Roma, 1612. Artemisia osservò le cordicelle avvolte intorno alle sue dita e l’assicella di legno che le avrebbe strette attorno alle sua falangi fin quasi a stritolarle, ma decise di non arrendersi. Quel che aveva sostenuto era la verità e nessuna tortura, nemmeno il supplizio della sibilla che avrebbe potuto portarle via per sempre la capacità di dipingere, l’avrebbe fermata. Aveva sopportato stoicamente ogni umiliazione – le accuse di essere “di dubbia moralità”, le lunghe e numerose visite ginecologiche che avevano confermato che lei non era più illibata, l’arroganza e la mendacità del suo assalitore, le false testimonianze – e non si sarebbe arresa nemmeno di fronte alla tortura. Prima che il tormento iniziasse, le sue parole furono per il suo stupratore: «Questo è l’anello che mi dai, e queste sono le promesse!»
La figlia di Orazio Gentileschi
Artemisia nacque l’8 luglio 1593, in una Roma in cui si mescolavano fervore culturale e problemi sociali. Suo padre, Orazio, era un pittore di origine pisana, che proprio nell’Urbe aveva raggiunto l’apice della sua espressività. Primogenita di sei figli, alla morte della madre nel 1605 le subentrò in tutte le incombenze domestiche e contemporaneamente cominciò ad interessarsi alla pittura.
Orazio decise di stimolare e coltivare il talento della figlia, innanzitutto insegnandole come preparare i materiali necessari. Artemisia iniziò ad approcciarsi alla pittura vera e propria realizzando delle copie dei dipinti che il padre aveva a disposizione. Questo sempre tra le mura domestiche, come imponeva il severo genitore. Nonostante le restrizioni, tuttavia, Artemisia conobbe indirettamente le opere di Caravaggio e di Carracci, venendone enormemente influenzata.
Col tempo quella tra Artemisia e Orazio divenne una vera e propria collaborazione artistica, tanto che la fanciulla operò qualche piccolo intervento sulle tele paterne. Nel 1610 la pittrice dipinse – forse con qualche aiuto paterno – quella che è considerata la sua opera di esordio nel mondo dell’arte, Susanna e i vecchioni, in cui viene rappresentato l’omonimo episodio biblico in cui l’innocente Susanna viene denunciata come adultera per non aver sottostato al ricatto di due anziani che volevano giacere con lei.
Agostino Tassi
Nel 1661 Artemisia Gentileschi incontrò l’uomo che le avrebbe sconvolto la vita: Agostino Tassi, virtuoso della prospettiva con cui Orazio collaborava per un lavoro a palazzo Rospigliosi. Tassi era sì pittore di talento, ma era anche noto per il suo carattere iroso e per essere coinvolto in diversi crimini. Nonostante questo, forse accecato dalla sua bravura e certamente riponendo in lui la massima fiducia, Gentileschi gli chiese di dare lezioni alla figlia.
Agostino non si smentì e cominciò a corteggiare Artemisia in maniera insistente e aggressiva. Infine, con la complicità di un amico, Cosimo Quorli, e della vicina di casa della ragazza – che l’aveva cresciuta – riuscì a sorprenderla da sola in casa, la immobilizzò e la violentò. Poi, per evitare conseguenze, le promise di sposarla.
Per capire meglio la situazione è d’obbligo sottolineare che lo stupro allora non era considerato un reato contro la persona (non lo sarebbe stato per ancora molto tempo), ma un atto contro la morale e contro l’onore di una famiglia. In soldoni, ai tempi il vero danneggiato veniva considerato il padre di Artemisia, che si ritrovava con una figlia deflorata e compromessa. L’unico modo di riparare era, appunto, il matrimonio.
Artemisia riferì l’accaduto al padre, come pure la promessa di Agostino. Per i mesi successivi la fanciulla continuò a comportarsi con Agostino come se fossero sposati, d’altronde non c’era altra soluzione, mentre Agostino seguitava a rimandare le nozze, adducendo come scusa la sua indignazione per il fatto che la pittrice era oggetto delle attenzioni sgradite di Quorli.
La verità venne a galla nel marzo del 1612: Tassi era già sposato. Orazio a quel punto lo denunciò. Emblematico è il fatto che nella lettera di denuncia il pittore ponga se stesso come colui che ha subito “lesione et danno”.
Il processo
Il procedimento durò circa sette mesi e, nonostante l’accusato fosse Tassi, come troppo spesso accade ancora oggi quella che fu principalmente processata – dalla Corte e dall’opinione pubblica – fu Artemisia Gentileschi. La ragazza venne dipinta come svergognata e promiscua da testimoni corrotti, ma alla fine i giudici riconobbero Agostino colpevole e lo condannarono a scegliere tra cinque anni di reclusione o l’esilio perpetuo da Roma.
Quella della pittrice, però, fu una vittoria di Pirro: il suo aggressore scelse l’esilio, ma non lo scontò mai, i suoi ricchi committenti riuscirono a farlo rimanere nell’Urbe. Artemisia, ritenuta una meretrice dai suoi concittadini, fu vittima di quella che ora chiameremmo una campagna d’odio e decise di lasciare la città. Sposatasi con il pittore Pierantonio Stiattesi, lasciò Roma alla volta di Firenze.
A Firenze
Introdotta dalla zio Aurelio Lomi alla corte di Cosimo II, Artemisia Gentileschi ebbe molto presto un grande successo e intrecciò amicizie con personaggi come Galileo Galilei e Michelangelo Buonarroti il giovane. La pittrice raggiunse il culmine del successo quando, prima donna nella storia, fu ammessa alla prestigiosa Accademia del Disegno di Firenze. Particolare degno di menzione è che nella sua prolifica e trionfale produzione pittorica fiorentina, Artemisia firmò le sue opere con il cognome Lomi.
Purtroppo la vita privata non fu altrettanto ricca di soddisfazioni. Artemisia e Pierantonio ebbero quattro figli, ma il loro fu sempre un matrimonio di facciata, per di più l’uomo non faceva altro che accumulare debiti, che poi la moglie doveva riappianare. Nel 1620 la coppia tornò a Roma, sia per problemi economici, sia per il raffreddamento dei rapporti con Cosimo II, sia per lo scandalo destato da una relazione extraconiugale della Gentileschi.
Da Roma a Napoli
A Roma, Artemisia Gentileschi ricevette il plauso e la protezione di artisti e committenti. Libera dal controllo del padre e dalle dicerie diffusesi dopo il processo, la pittrice poté finalmente frequentare i colleghi romani e scoprire le bellezze della Roma antica, migliorando ulteriormente così le sue capacità artistiche.
Tuttavia, frustrata dal fatto di non ricevere le stesse commesse dei suoi colleghi maschi, a cui erano affidati affreschi e pale d’altare, decise di lasciare nuovamente la città. Dopo una serie di spostamenti che è difficile ricostruire, si stabilì a Napoli, che diverrà la sua seconda patria e dove, per la prima volta, si troverà a dipingere tre tele per una chiesa, la cattedrale di Pozzuoli al Rione Terra.
Nel 1638 Artemisia Gentileschi si trasferì in Inghilterra, invitata da Re Carlo I, per cui Orazio lavorava come pittore di corte. Sicuramente lasciò Londra prima dello scoppio della guerra civile (1642), ma si sa poco dei suoi spostamenti successivi. Nel 1649, comunque, era certamente tornata a Napoli, dove morì all’incirca nel 1665.